Dovremmo iniziare a pagare Internet
Detta così, può sembrare una provocazione masochistica. Ci siamo viziati per decadi col “tutto gratis”, quindi perché mai ora vorremmo regalare soldi a Mark Zuckerberg, che in fin dei conti ne ha già anche troppi?
Oltretutto, non essendo i servizi web fatti di materie prime come il pane e la pasta, fatichiamo a capire quali costi debbano sostenere e, quindi, su quali basi un abbonamento sarebbe giustificato. Tuttavia, questi costi esistono e sono enormi. Per esempio:
- Spese operative di Google nel 2021: 178,9 miliardi di dollari[1]
- Spese operative di Facebook nel 2021: 71 miliardi di dollari[2]
- Spese operative di Snapchat nel 2021: 4,8 miliardi di dollari[3]
Questi costi operativi includono le spese di ricerca e sviluppo, il mantenimento e la corrente elettrica dei data center (che possono arrivare a contenere oltre 2,5 milioni di server, come nel caso di Google[4]), e altre infrastrutture come i cavi sottomarini proprietari.
Ma, non essendo societĂ di beneficenza e registrando profitti, da qualche parte devono esistere delle entrate. Che infatti esistono e sono nel 99% dei casi generate dalla pubblicitĂ online.
E questa pubblicità online, oltre a essere fastidiosa, è interamente pagata da noi senza nemmeno accorgercene. Sì, perché acquistando i beni sponsorizzati vi è una componente del prezzo aggiuntiva dovuta al marketing. Quindi, questi servizi web gratis, non sono affatto gratis, ma li stiamo pagando fino all’ultimo centesimo! E questo modello di business presenta due svantaggi.
Innanzitutto, che questi costi includono anche la produzione dei contenuti pubblicitari (George Clooney non ha recitato gratis nello spot Martini), quindi in realtà stiamo pagando i servizi “gratis” più di quanto ci costerebbero se non fossero free.
Ma soprattutto, questo modello presenta un lato ancora più discutibile: dal punto di vista delle società web, gli utenti non sono clienti, ma sono il prodotto venduto agli inserzionisti. E questo porta invariabilmente alla generazione di contenuti di qualità sempre più bassa, alla presenza di banner sempre più invasivi, alla violazione della privacy e al dominio degli algoritmi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei siti d’informazione e news. Dal livello a cui si è degenerati si può sperare che sia giunta la fine di quest’era, per lasciare spazio a modelli più sostenibili.
«Paghiamo per un buon paio di scarpe, per un buon film o per vedere una partita di calcio. Non si capisce perché non dovremmo pagare per una buona informazione.»
Abbandonare le consuetudini radicate non è mai impresa agevole. Eppure, scorgiamo già significativi segnali di cambiamento: Netflix, The New York Times che ha coraggiosamente adottato un rigoroso paywall per il proprio giornalismo di qualità , o Elon Musk che introduce la tariffazione del segno distintivo su Twitter. Dal canto nostro, possiamo accelerare questa evoluzione premiando i servizi di qualità a pagamento e rendendo l’advertising sempre più impraticabile mediante tecniche di filtraggio della pubblicità (il cosiddetto “ad blocking”Secondo un’analisi basata sul Dilemma del Prigioniero, l’equilibrio finale porterebbe all’insostenibilità di un ecosistema internet fondato esclusivamente sulla pubblicità ).
Riferimenti
- Meta Platforms Operating Expenses 2010-2022 [URL] [URL consultato il 2 novembre 2022]
- Alphabet Operating Expenses 2010-2022 [URL] [URL consultato il 2 novembre 2022]
- Snap Operating Expenses 2016-2022 | SNAP [URL] [URL consultato il 2 novembre 2022]
- Google Data Center FAQ [URL] [URL consultato il 2 novembre 2022]