I limiti alla nostra sopravvivenza

Quanto costa tenere in vita Michael Schumacher? Secondo la stampa britannica, la sua famiglia pagherebbe circa 191 mila euro a settimana per tenerlo in vita, pari a 27 mila euro al giorno, per un totale di 10,2 milioni di euro all’annoLe stime giornalistiche non sono state tuttavia confermate dalla famiglia. Una spesa, ovviamente, non per tutte le tasche.

Anche senza considerare questo caso estremo, dovremmo comunque riflettere sui limiti finanziari alla nostra sopravvivenza. Oggi, gli anziani hanno ancora a disposizione una base contribuente in grado di tenerli in vita per un certo lasso di tempo oltre il limite naturale. Ma il declino demografico non è dalla nostra parte: ci saranno ancora risorse per tenerci in vita quando sarà il nostro turno?

In generale, sta male parlare di soldi, e quando si tratta di sanità pubblica la si vorrebbe considerare al di sopra dei normali meccanismi economici, come esemplificato dal dibatto relativo al caso di Indi Gregory. Ma purtroppo non lo è.

La nostra società assomiglia sempre di più a un reparto di geriatria. Se il nostro senso stesso della vita è diventato il perseguire l’allungamento della vita stessaEsemplare è l’ossessione per la giovinezza dei Tycoon della Silicon Valley, Peter Thiel e Bryan Johnson, allora dovremmo orientare verso la sanità ogni decisione politica e ogni singolo centesimo, pubblico e privato. Effettivamente alcuni la pensano così, si pensi ai divieti sul fumo, sull’alcol, alla riduzione degli investimenti nell’istruzione. Ma se dedicheremo la nostra vita a evitare la morte, la dedicheremo a una battaglia contro i mulini a vento dall’esito scontato.

Nell’Occidente tecnologicamente avanzato, la morte è un tabù: il solo parlarne crea imbarazzo. In passato, filosofie quali lo stoicismo, si interrogavano su di essa e ne esaltavano l’accettazione. Quando c’è la morte non ci siamo noi e quando c’è la morte non ci siamo noiEpicuro, Lettera a Meneceo. Quindi, perché preoccuparci di qualcosa che non ci riguarda? Un insegnamento coraggioso, che però gira intorno al problema vero, ciò che ci spaventa veramente, ovvero la fine della parabola della vita, l’idea che gli eventi, il flusso delle nostre produzioni mentali si arresti di colpo. Gli stoici lo sapevano e anche per questo ha una risposta: la felicità non aumenta col tempo. Un bel film non diventa più bello se aggiungiamo altro metraggio.

Se rinunciamo al tempo, rinunciamo ai nostri progetti, alle nostre emozioni, alle ambizioni di cui sono innervate le nostre giornate e questo forse non è un esito auspicabile. Il tempo conta, noi siamo i nostri progetti e rinunciare ai nostri progetti significa in fondo rinunciare a ciò che noi siamo. Perché è proprio il fatto che noi dobbiamo morire, questa nostra condizione di mortalità, che rende le nostre fragili vite così preziose e inimitabili. È paradossale, sicuramente doloroso, ma probabilmente è proprio così[1].

Vale veramente la pena vivere da malati per morire sani, o è forse meglio vivere da giovani quando siamo realmente vivi? Per qualcuno la vita può avere significato in ogni circostanza, per un’altro è meglio la morte che una vita amaraSiracide 30,16:17. Essendo la questione intimamente individuale, è fondamentale che garantire la libertà di scelta, fra la quantità e la qualità della vita.

Non val medicina,
non giova la china,
non si può guarire
bisogna morire

— La Passacaglia della Vita (Homo fugit velut umbra) è un anonimo del 1657, tratto dalla raccolta Canzonette Spirituali e Morali che si cantano nell’Oratorio di Chiavenna, eretto sotto la Protezione di San Filippo Neri

Riferimenti

  1. Dubito ergo sum. Brevi lezioni per vivere con filosofia Bonazzi, M, 2021. Solferino.
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