Se l’Europa fa la fine della Nokia
M. C. Escher, Eye, incisione, 1946, 15.2×20.1 cm
Quale azienda significativa è stata fondata in Europa negli ultimi vent’anni? Se pensiamo alle rivoluzioni recenti — della microelettronica, degli OGM, del software, di Internet, e dell’intelligenza artificiale — il pensiero corre inevitabilmente agli Stati Uniti o all’Asia. Se, viceversa, consideriamo le colonne portanti della nostra economia, incontriamo realtà antiche: Ansaldo, fondata nel 1853, Siemens, nel 1847, Shell, nel 1890, etc. E a questa bassa natalità imprenditoriale, si affiancano storie gloriose che giungono alla capolinea, come il caso di Nokia, dissipando patrimoni di esperienza e prestigio costruiti nell’arco di un secolo.
Eppure, la Strategia di Lisbona recitava, con ambizione, che “L’Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”[1].
A distanza di vent’anni, questa visione non si è realizzata. Che fine ha fatto il Google europeo? E i chips europei? E il GPS europeo? E quanto ottimismo riporre nei proclami politici per un’AI europea?
La risposta amara è racchiusa nella barzelletta: «In un convegno sull’Intelligenza Artificiale, un funzionario del governo cinese dice: nel 2024 metteremo sull’IA 10 milioni di ingegneri. Quello USA gli risponde: noi metteremo 10 miliardi di dollari. Quello UE: noi 10 mila pagine di regolamenti»
L’azione politica è stata fin qui volta all’intralcio dei competitors americani e alla produzione di sofisticate regolamentazioni. Ma la regolamentazione non altro che il miglior modo per soffocare l’innovazione. Limitando la libertà degli individui e delle imprese si limita la possibilità di sperimentare e con essa la possibilità di scoprire nuovi metodi che avrebbero potuto migliorare la qualità della nostra vita. E questa attitudine alla pianificazione minuziosa, alla sterilizzazione del rischio a qualsiasi costo, è ormai pervasiva anche nel management delle aziende stesse.
Cosa possiamo dedurne? La lezione, a malincuore, è che quelle storie d’impresa che hanno arricchito i nostri territori, oggi, sono totalmente anacronistiche. Se l’Europa era un tempo un gigante economico ma un nano politico, oggi rischia di essere piccola in entrambi i sensi. Nel 2007 l’economia americana ed europea erano paritarie, mentre oggi, dopo solo 15 anni, quella americana è raddoppiata mentre quella europea — la medesima Europa che guarda agli USA con spocchia — è rimasta pressoché invariata. Stiamo diventando un museo vivente, ma quanto a lungo potrà durare?
Consapevole che non è più possibile campare di rendita, occorre tornare ad avere coraggio e recuperare la fiducia nella forza creatrice del caos, e nell’ordine che emerge dal groviglio informale delle relazioni umane. Se dal caos emerge la bellezza delle geometrie frattali, dalle strutture pianificate centralmente, disconnesse dalla realtà, può emergere solo un mondo distopico. La natura umana è inerentemente limitata: persino un oggetto apparentemente innocuo come una matita è tremendamente difficile da fabbricare[2]. La pretesa arrogante di voler pianificare a tavolino ogni aspetto del nostro mondo, la cui complessità aumenta ogni giorno, può condurre solo a esiti infausti.
Riferimenti
- Consiglio Europeo Lisbona 23 e 24 marzo 2000. Conclusioni Della presidenza [URL] [URL consultato il 15 agosto 2024]
- I, Pencil Read, L, 1958. Foundation for Economic Education, Incorporated.