Viaggio ai confini della conoscenza

“lo ho esattamente centouno anni, cinque mesi e un giorno.”
“Non posso crederlo!” disse Alice.
“Davvero?” disse la Regina in tono di commiserazione.
“Prova ancora: inspira profondamente, e chiudi gli occhi.”
Alice rise. “Non serve a niente provare” disse: “’Non si possono credere le cose impossibili!”
“Mi sembra che tu non abbia molta pratica” disse la Regina. “Alla tua età io mi esercitavo mezz’ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.”
— Lewis Carroll, Alice attraverso lo specchio
Esistere equivale a conoscere, ovvero essere una coscienza di fronte alla quale la realtà si manifesta, e senza la quale l’esistenza stessa perderebbe definizione. Eppure questo movimento si rivela travagliato, orientato verso un fine irraggiungibile: il pensiero razionale ricerca la totalità del tutto, attraversa ogni campo del sapere, ma inevitabilmente si scontra contro i propri limiti.
«Ho detto: “Voglio acquistare sapienza”; ma la sapienza è rimasta lungi da me. Una cosa ch’è tanto lontana e tanto profonda chi la potrà trovare?»
Già la logica di Aristotele, fondamento della razionalità, rivela presto le sue crepe. “Questa frase è falsa”: è una frase vera o falsa? Nonostante l’apparente infallibilità delle regole – identità, non-contraddizione, terzo escluso – il pensiero si arresta. E sono infine i teoremi d’incompletezza Gödel, piuttosto che sanare l’antinomia, a dimostrare come il paradosso è intrinseco alla matematica stessa, e non sarà mai superato. Dopo secoli, il distendersi dell’intelletto umano è quindi giunto a una vetta da cui scorge un confine al movimento dei priori ragionamenti.
E a un orizzonte altrettanto evanescente giunge pure la ricerca dell’arché, il principio primo della realtà: la meccanica quantistica fornisce una descrizione del mondo precisa come non mai, e al tempo stesso chiusa ad ogni tentativo di visulizzazione. La tradizione occidentale – da Aristotele alla fisica di Newton – immaginava la realtà come un sistema armonico, regolato da leggi universali e immutabili: ogni effetto secondo la sua causa, ogni evento secondo una traiettoria esatta. Ma questa la visione rassicurante si frantuma laddove il livello più profondo della realtà, quello degli atomi, obbedisce a logiche contrarie al buon senso: un esperimento preparato in condizioni identiche produce esiti impredicibili, per quanto probabilisticamente determinati e le particelle paiono comportarsi come tali solo se misurate.
«Il mondo non è fatto di cose, bensì di possibilità. Le particelle elementari non sono oggetti nel senso classico. Esse possiedono una tendenza ad apparire, un potenziale di esistenza.»
Questa tendenza ad apparire è qualcosa di enigmatico. La realtà quantistica non è già data, ma prende forma solo nell’atto dell’osservazione; fino a quel momento rimane sospesa nella descrizione matematica di un’onda e delle sue frange di interferenza. Da questo formalismo emerge una coperta troppo corta: una pura sinusoide si estende all’infinito per tutto l’asse delle ordinate: restituisce con esattezza la velocitàLa quantità di moto è proporzionale alla frequenza, e di conseguenza lo è la velocità., ma nulla dice sulla localizzazione. Un impulso di Dirac, al contrario, individua un preciso riferimento geografico, ma a costo di rinunciare a ogni determinazione riguardo alla velocitàQuesta funzione matematica è composta dalla somma di infinite frequenza. Posizione e velocità non possono essere coesistere in un’unica rappresentazione. La natura del profondo sfugge all’interpretazione secondo le categorie della mente umana, forgiata dall’evoluzione per un mondo macroscopico.
Forse il modello è incompleto. Forse esistono variabili nascoste, capaci di restituire alla ragione le traiettorie che oggi sembrano frutto del caso. Ma un teorema preciso — quello di BellÈ singolare come un teorema matematico possa rispondere a domande filosofiche — limita severamente questa speranza di “realismo locale” e obbliga a scelte estreme: o una casualità ontologica, o un universo superdeterministico, o una realtà non locale, in cui gli eventi si influenzano istantaneamente, pure a distanze cosmiche.
L’ontologia sottostante al formalismo sfugge a ogni tentativo di reificazione. Molte interpretazioni sono state proposte: si parla di multiversi, di un collasso fisico dell’onda, di realtà costituite da eventi piuttosto che da oggetti. Dopo un secolo, l’impressione rimane quella di un’esegesi provvisoria, frustrante come l’impasse in cui si è arenata la Solaristica nel romanzo di Lem.
«quel che i nostri strumenti riuscivano a captare erano solo le briciole di uno sterminato monologo, colto a tratti, che andava svolgendosi eternamente a profondità che superavano la nostra comprensione.»
La meccanica quantistica, nonostante il successo predittivo, potrebbe non essere l’ultima parola sul mondo: non riesce infatti a descrivere la gravità. Ma i tentativi di unificazione sin qui compiuti, per quanto incerti, sembrano dirigere la conoscenza verso territori ancor più liminali: la gravità quantistica nega l’esistenza di un tempo e di uno spazio come entità primarie, in luogo di un’ontologia composta da eventi e da relazioni tra di essi e da cui lo spazio e il tempo emergono. Ma come pensare l’esistenza di un oggetto al di fuori dello spazio e del tempo? Le categorie dell’intelletto, evolutesi nel mondo macroscopico, per il mondo macroscopico non possono visualizzare il concetto.
Così il pensiero si infrange contro una muraglia assurda, dove le certezze cadono, le leggi si frantumano, e il linguaggio stesso arranca. Portato ai suoi estremi, il sapere si ritrova incagliato in antinomie e in paradossi irriducibili. Oltre questo limite si percepisce la presenza di una realtà noumenica sovrastante, dove la fisica cede il passo alla metafisica. La prima percezione è la claustrofobia e la vertigine: un labirinto indecidibile, dove regna l’angoscia e l’impotenza.
«Il suo pensare, in quanto devoto, rimane un suono indistinto di campane o una calda nebulosità diffusa, un pensare musicale che non giunge al concetto, il quale invece sarebbe l’unico modo immanente e oggettivo del pensiero. […]. Si presenta cosí il movimento interiore dell’animo puro, che sente se stesso, ma in modo doloroso, quale scissione; il movimento di una nostalgia infinita, […]. Nel contempo, però, questa essenza costituisce l’aldilà irraggiungibile, che sfugge – o meglio: che è già da sempre sfuggito – all’atto con cui si cerca di afferrarlo.»
Questo passo descrive la condizione della coscienza infelice: l’uomo cerca la verità assoluta, di cui avverte il desiderio, ma ciò che trova è l’impossibilità di superare il muro della sua natura e di essere dio: scacco matto?
Non necessariamente: l’esistenza lucida non si lascia schiacciare dal timore del fallimento. Conscia che «La vita è un mezzo di conoscenza»[1], vive avventurosamente e trova il coraggio per spingersi verso l’infinito: o troverà la totalità del tutto (la partita è ancora aperta), oppure giungerà a una frontiera invalicabile. Ma anche questo esito non è una sconfitta. La ragione dimostra la propria validità nel proprio ambito e le leggi della fisica sono comunque un logos che permane nel divenire: la bottiglia è mezza piena. Ma, soprattutto, sul piano esistenziale il giudizio è analogo, poiché il finito, per quanto piccolo è infinitamente superiore al nulla: è la sensazione di un essere qui e ora che avrebbe potuto non essere, in un mondo che avrebbe, anch’esso, potuto non esserci, e tuttavia c’è. La dicotomia “tutto-nulla” si dimostra infeconda. E, al tempo stesso, questo epilogo non è un capolinea, ma un’apertura dove l’immanente e il trascendente si riconnettono, un essere che pare dire: “Io sono colui che sono”, ossia “non lo puoi capire”, e che tuttavia è una presenza fisicaIn una prospettiva puramente materialistica, guidata dall’evoluzione, si potrebbe definire “vero” ciò che conserva e accresce la vita. La verità sarebbe allora un semplice strumento di sopravvivenza. Ma la coscienza, giunta a un grado di riflessività inedito, è in grado di osservare i propri meccanismi, comprenderne la logica e perfino metterla in discussione. In questo gesto, l’uomo si sottrae alla pura funzionalità biologica e apre lo spazio per un concetto di verità che non coincide più soltanto con l’utile.. Il mistero al di la del limite è un ignoto che attrae.
«La visione scientifica dell’esistenza è poetica fino quasi a risultare trascendentale. Siamo incredibilmente fortunati ad avere avuto il privilegio di vivere per alcuni decenni su questa terra, prima di morire per sempre. E noi che viviamo oggi siamo ancora più fortunati, perché possiamo comprendere, apprezzare e godere l’universo come nessuna delle generazioni precedenti ha potuto fare. Abbiamo il beneficio di secoli di scoperte e progressi scientifici alle spalle. Aristotele sarebbe sbalordito da ciò che uno scolaretto qualsiasi potrebbe insegnargli oggi. Ecco cosa dà significato alla vita. E il fatto che questa vita abbia un limite, e sia l’unica vita che abbiamo, ci rende ancora più determinati ad alzarci ogni mattina e cercare di partecipare al meraviglioso ciclo della natura.»
La stessa epifania sperimentata da Heisenberg a Helgoland, quando alle 3 del mattino giunge alla prima formulazione consistente della meccanica quantistica: “La mia prima reazione fu di sgomento. Ebbi l’impressione di osservare, oltre la superficie dei fenomeni atomici, un livello più interno di misteriosa bellezza. Il pensiero che ora mi sarebbe toccato di indagare più a fondo questo nuovo mondo matematico mi dava le vertigini. Ero troppo eccitato per andare a dormire e così uscii che appena albeggiava e mi arrampicai su un picco roccioso a strapiombo sul mare che da parecchi giorni desideravo scalare. Non incontrai particolari difficoltà e vidi sorgere il sole dalla vetta”[2].
Ma perché un limite? Perché l’uomo, parte della realtà, non potrebbe conoscerla nella sua interezza? L’essere parte della realtà determina l’Io stesso: che cos’è l’Io? Fuori c’è il mondo, ma dentro? C’è ancora il mondo![3]. L’Io non è che una finestra attraverso la quale il mondo guarda se stessoL’immagine potrebbe richiamare un orientamento mistico, quale quello espresso da Meister Eckart: “L’occhio con cui io vedo Dio è lo stesso occhio con cui Dio mi vede”. Ma tale posizione, per quanto evocativa, presuppone una verità assoluta già data. È invece più onesto attenersi alla ragione, considerata entro il suo ambito di validità., e della cui stessa sostanza è costituito: intersezioni di campi di forze, diagrammi vettoriali, fasci di rette che convergono, divergono e si rifrangono. Un meccanismo evolutosi per affrontare una porzione della realtà e a questa porzione limitato.
La sensazione immediata è la disgregazione e lo smarrimento dell’androide di Blade Runner che scopre di essere una macchina[4]. La consapevolezza è illuminazione, ma l’illuminazione non è luminosa, come vorrebbero far credere certe versioni pret-a-porter delle religioni orientali, bensì oscurità[5]. Ma per l’esistenza lucida, anche questa crisi apre un varco: liberarsi dall’illusione di un’identità compatta e autosufficiente, per accedere a un autentico sé. Questa oscurità è dunque una notte senza stelle, ma al tempo stesso una notte sacra dell’esistenza, al termine del quale vi è il riconoscimento che non esistono l’Iperuranio, le Monadi o lo Spirito Assoluto: esiste solo la realtà. Il reale è però vissuto in uno stato in di assoluta presenza dove il soggetto dell’esperienza si riconosce parte integrante dell’oggetto sperimentato.
Tale esperienza si potrebbe far corrispondere ad alcune vedute dello Zen: la realtà acquista un senso quando è colta così come è, quando non conosce fini, quando non le si attribuiscono intenzioni, quando non ha bisogno di giustificazioni e di dimostrazioni.Come già osservato in precedenza, occorre prestare attenzione a cedimenti mistici. «E in questo Uno dobbiamo eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla», scriveva Meister Eckart. La lucidità è la capacità di preservare il contrasto dialetto fra la rinuncia radicale e la pretesa di certezze Questo orientamento, al contrario della conclusione disperata e disperante di Salomone[6], è altresì liberatorio. L’esistenza non deve perseguire ossessivamente e infruttuosamente un confronto con l’infinito, da cui sarebbe inevitabilmente annullata, ma riconoscere un valore in se stessa, nonostante la sua finitudine, che è comunque infinitamente maggiore del nulla, e abbandonare la paura del mondo.
«Il cosmo è dentro di noi. Siamo fatti di polvere di stelle. Siamo un modo per l’universo Cosmo di conoscere se stesso.»
Il pensiero è reale quanto il sole e la pioggia e da un significato alla realtà. L’esistenza lucida perseguirà quindi il cammino della conoscenza. È un sentiero irto e privo di scorciatoie: né le sostanze psichedeliche, né la perfezione delle posture Yoga, né la contemplazione estatica di un ruscello conducono molto lontano. Come diceva Democrito, «la verità è nel profondo», e l’indagine che può avvicinarvisi è lo studio dei fondamenti. Come la costruzione di una cattedrale, questa ricerca è un progetto che attraversa le generazioni. Per questo è indispensabile la prosecuzione della tecnica, che sola può sostenere il futuro dell’esistenza stessa. La conoscenza si rivela così, allo stesso tempo, mezzo e fine.
Riferimenti
- La gaia scienza Aforisma 324: ``La vita come mezzo della conoscenza'' Nietzsche, F, 1882. F. W. Grunow.
- Fisica e oltre Heisenberg, W, 2019. Bollati Boringhieri.
- Palomar Prima edizione italiana Calvino, I, 1983. Einaudi.
- Do Androids Dream of Electric Sheep? Romanzo da cui è tratto il film Blade Runner Dick, P.K, 1968. Doubleday.
- Alchemical Studies par. 335 Jung, C.G, 1967. The Collected Works of C. G. Jung, Vol 13. Princeton University Press.
- Qoèlet (Ecclesiaste) Traduzione ufficiale CEI Qoèlet, , 2008. La Sacra Bibbia. Conferenza Episcopale Italiana.